Cronaca di una mattina trascorsa nel bosco sulle tracce di “Soki” assieme agli esperti dell’università di Udine: siamo riusciti a fotografare i peli che ha lasciato vicino a un’esca.
Prima uno, lungo e liscio, a penzoloni. Poi un altro, e un altro ancora, questa volta dalla linee più sinuose, infine l’ultimo, arrotolato attorno alla spina di ferro. I due Andrea, Caboni e Madinelli, rispettivamente dottorando di ricerca e tecnico della facoltà di Scienze animali dell’università di Udine non hanno dubbi: sono peli di orso. È la conferma che Soki (il plantigrado della Val Tagliamento) è passato di qua. Ci troviamo nel mezzo di un bosco fitto di abeti. Per terra rami, aghi e fango rendono l’ascesa insidiosa, ma almeno il cielo ha stoppato il download ininterrotto di acqua degli ultimi giorni. Nelle narici si fa spazio un odore particolare: è il segnale che siamo vicini all’esca. Più che vicini: è proprio lì, a un metro. Attorno ad essa i ricercatori avevano disposto un recinto composto da un filo di ferro per fare in modo che l’orso ci lasciasse impigliati i peli, da raccogliere e studiare. In realtà le esche (cibo) sono due: la prima a terra, ricoperta da tronchetti e bastoni di legno; la seconda in alto, collocata dentro un vaso. Una serve a dedurre (da come e da quanti bastoni sposta) la forza e quindi la stazza dell’animale; l’altra, essendo messa in alto, ad avere la certezza che si tratti davvero di un orso.
Per ovvie ragioni di studio non possiamo svelare il luogo esatto, ma basti sapere che ci troviamo nei pressi di Pani, l’altopiano dove Soki ha predato 8 pecore, assieme alle due tra Oltris e Voltois. Quello tra l’uomo e l’Orso Soki è un rapporto a distanza che richiede cura e pazienza, fatto di segnali flebili come il pelo lasciato su un filo spinato – o più eclatanti – la predazione di ovini. L’obiettivo è di ricostruirne quanto più possibile i comportamenti e tracciarne gli spostamenti. Conoscerlo aiuta a comprenderne le abitudini e agevola la gestione della sua convivenza con l’uomo e con gli allevatori e apicoltori in particolare. L’orso bruno europeo vive di notte apposta per non incontrare l’uomo: e questa è già una dimostrazione di come adotti abitudini di vita ad hoc per evitarci. Soki in particolare (l’orso della Val Tagliamento) ha finora sempre schivato l’uomo. In altre parole si sta comportando “da orso”: con diffidenza.
Specie all’inizio può capitare che l’animale nutra diffidenza verso l’esca – spiega Caboni – ma una volta fatta l’abitudine, la mangia volentieri, magari anche con una certa grazia, come ci svela il ricercatore, citando l’esempio di un esemplare che era solito prendere il vaso posto in alto, papparne il contenuto, e infine depositarlo ordinatamente ai piedi dell’albero. Con il termine esca, quindi, si intende una (o più) porzione di cibo attorno alla quale viene allestito un sistema che aiuti a trattenere informazioni sull’orso, sia attraverso il filo spinato, che scuce peli, sia con le foto trappole. In questo caso Madinelli ha installato una trappola fotografica vecchio stile, ovvero con pellicola e flash e non a infrarossi, per immortalare l’orso alle prese col cibo.
Nel raccogliere i campioni di pelo i ricercatori usano i guanti e mettono ogni singolo reperto in una busta, indicando luogo, chi ha partecipato alla spedizione, altri dati e a quale spina di ferro è rimasto impigliato. In questo caso i peli sono rimasti impigliati lungo tutto il perimetro del mini recinto, a indicare che Soki ha girato attorno all’esca, senza però compiere il passo di scavalcare il filo. Ciò può essere dovuto al fatto che non abbia ancora preso confidenza – e quindi fiducia – con l’esca, o che preferisca un cibo diverso da quello posizionato lì.
L’approccio del plantigrado a recinti come questo non dà di per sé prova scientifica, ma fondamentali indicazioni sull’uso del territorio e il fatto che sia presente nella Val Tagliamento con una certa stabilità (compatibile alla sua territorialità temporanea) è confermato appunto dal fatto che cominci a frequentare le esche. Ad aiutare il lavoro dei ricercatori ci sono gli studi genetici sul dna ricavato da peli e altro ma, con le ristrettezze economiche con cui ha a che fare l’università italiana, i reperti spesso se ne stanno nel cassetto, perché non ci sono i fondi per le analisi. I risultati della ricerca si fanno così più lenti e la carenza dei riscontri di laboratorio al lavoro sul campo, allungano a dismisura l’esito dei lavori, lasciando a lungo inevasi punti interrogativi importanti nello studio del territorio e degli animali che lo abitano.
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